sabato 10 dicembre 2011

Nuova tassa nautica. Andiamo, è tempo di migrare.


Amici naviganti, siamo sinceri, lo sapevamo. 
Noi che preferiamo stare in acqua che a terra, noi che sappiamo rinunciare alle macchine costose, che quando andiamo a cena fuori, preferiamo una taverna semplice a un ristorante elegante, noi che rinunciamo volentieri ad essere vestiti secondo le regole della moda, quasi persino ad essere vestiti, pur di mettere da parte quel che serve per una nuova vela. Noi, non potevamo non immaginarlo.
Di cosa parlo? È abbastanza ovvio ed è inevitabile parlarne. La nuova tassa di stazionamento, la nuova orribile dimostrazione che l’Italia, nonostante i suoi quasi 8.000 chilometri di costa, non è patria dei naviganti. Avevo il forte sospetto che, nonostante gli indubbi meriti e il (finalmente) dignitoso e rigoroso stile, un signore che porta addosso il nome Monti non poteva essere tanto solidale con noi delle distese azzurre. Forse i genitori tentarono di compensare e deviare il destino del piccolo Monti attribuendogli come nome di battesimo Mari(o), ma che dire? Non è servito allo scopo, evidentemente. 
La base del problema è un preconcetto ottuso: chi possiede una barca è, per forza di cose, una persona ricca. Più ricca di chi possiede un cavallo, un orologio d’oro, gioielli, quadri d’autore, più ricca addirittura di chi ha, come seconda casa, una bella villa a Capri. Nella concezione tutta italiana del benessere, la barca rientra nel più che superfluo, nel lusso, nell’ostentazione di uno stato sociale superiore. Chi possiede una barca va punito, vessato, ammonito. Colpa nostra, ragazzi, avremmo dovuto scegliere il camper. Fa traffico e inquina ma, evidentemente, fa meno benestante nell'immaginario collettivo.
La prima fuga di notizie, lunedì 5 dicembre, ci fece ringraziare il cielo di essere a bordo, volevamo indossare subito le cerate e mollare gli ormeggi. Via, velocemente, si torna in Grecia, tanto qui che ci stiamo a fare? Da quelle prime indicazioni, infatti, sembrava che P’acá y p’allá dovesse, povera, pagare ben 4.500 euro l’anno per stare in Italia. E avremmo dovuto anche essere grati alla fortuna perché, se fosse stata appena 45 cm più lunga, il dazio sarebbe salito a ben 15.000 euro. Il pensiero è corso subito ai tanti che, magari non hanno nemmeno una casa di proprietà, ma possiedono una barca di 15 metri degli anni 70 e che si sarebbero trovati a pagare di tassa annuale quasi quanto il valore dell’imbarcazione. Senza speranza poi, perché sembrava che, anche a tirarla in secco, si sarebbe dovuto pagare lo stesso importo.
Poi, il giorno dopo, i giornali del settore studiano il decreto e ci rassicurano tutti, comunicandoci che nelle carte c’è una sacrosanta differenziazione tra vela e motore, che sono previsti abbattimenti per vetustà, che quando la barca è a terra, la tassa non si paga. E, nel miglior stile dell’italiano che ormai si è abituato a tutto, per noi è quasi una festa. Ci ritroviamo, Giovanni ed io, quasi commossi, a festeggiare la “riduzione” della nostra tassa da 4.500 euro, stimati ieri, a 1.241 euro sulla base delle ultime tabelle. Quando stiamo per telefonare al professor Monti per dire “Grazie”, ci rendiamo conto della follia.
Non ci stanno riducendo una tassa, ci stanno, ancora una volta, trattando da cretini. Non bastavano i costi sproporzionati dei posti barca italiani, i marinai del bel Paese sono destinati a finire in bocca agli squali di un sistema erariale che non è capace di recuperare l'evasione dei furbi e i danni della politica.
Nel frattempo, dal decreto, sparisce il criterio di vetustà, sull’esonero nel rimessaggio a terra non vi è più certezza e torna l’ansia. Ma soprattutto, cosa ai limiti della commedia dell’arte, tocca fare il tifo per il Sen. Mauro Cutrufo, (cui, detto tra noi, non darei mai autorizzazione a salire a bordo di P’acá y p’allá) perché presenterà una proposta di emendamenti a tale tassa, cercando di renderla più ragionevole. Porca miseria, c’è solo lui? Uno in cui riconoscersi più facilmente, no? D’Alema, che stai facendo? Non potresti occupartene tu? 
Questa è la beffa più intollerabile, una sorta di sotterranea insinuazione che la barca non sia compatibile con l’essere una persona democratica e di sinistra. Andateglielo a dire a P’acá y p’allá e vedrete come si ingavona bene per farvi cadere in mare. Che fine ha fatto la libertà? Non quella del popolo di Forza Italia, quella vera, quella del libero arbitrio, della possibilità di scelta? Noi vogliamo essere di sinistra, pagare il giusto importo di tasse (tié, pure qualcosa in più per dare un piccolo contributo di compensazione per quelli che ci tengono tanto ad evadere) e andarcene in giro per i mari con la nostra barca a vela. Che è molto più bella di una Ferrari, di una Porsche o di un aereo privato ma non è certo dimostrazione di grande ricchezza, semmai di 20 anni di gioiosi sacrifici nell’attesa di conoscerla.
Ma siamo positivi! Vediamola come un’invito, questa tassa. O meglio, come una conferma. A primavera torniamo a casa, per mare, in acque meno ostili.

venerdì 18 novembre 2011

Terra! Ma siamo in periodo di prova.


Il viaggio di P'acá y p'allá ~ Maggio-Novembre 2011
E così, dopo 6 mesi per mare, oltre 4.000 miglia percorse, 54 isole greche visitate, 7 regioni italiane, 2 paesi stranieri, siamo arrivati. O meglio, siamo tornati. 
A fare che? Questa domanda suona nella mia testa e so che continuerà a echeggiare imperterrita nei giorni a venire. Siamo tornati. Talmente tornati, che siamo a Roma da due giorni e non si vede che terra a perdita d’occhio.  Abbiamo atteso religiosamente la caduta del governo per mettere piede in città e rendere omaggio a qualcosa di nuovo che sa di migliore. Questo è consolante, rende meno duro il rientro. Comunque, domani torniamo in banchina, ancora in porto, ancora a dormire  sul mare, contiamo i minuti. 
Amici e parenti chiedono “ma non avevate voglia di tornare a dormire su un vero letto?” Strana domanda, il nostro letto su P’acá y p’allá è assai più comodo e confortevole di quello di casa, la doccia funziona meglio ed è anche più spaziosa, il riscaldamento costa meno ed è molto più efficiente. 
Io farò resistenza, voglio restare il più possibile a 150 chilometri dal luogo di residenza, 150 chilometri dalla cosiddetta routine. Quale routine poi? Non la mia, io di routine non ne ho al momento, bisognerà che me ne inventi una. Giovanni è già al telefono, cercando di districarsi tra due servizi fotografici per incastrarli nei giorni e farli entrambi, io medito di far finta per un po’ di accettare la città, fare due o tre cose necessarie che hanno tutte a che fare con segni rossi sul mio estratto conto che ormai sembra un campo di battaglia, e poi tornare da P'acá y p'allá a far finta che non è successo niente. Ci sono un sacco di cose da fare: pulizie, riparazioni, cuciture, sostituzioni, lavori per mettere il bimini con i pannelli solari, il generatore eolico. Due belle vele nuove da pensare e quando ci sono i soldi da ordinare. 
I prossimi giorni saranno giorni di elenchi, odio gli elenchi ma una volta scritti ti danno sicurezza e una spinta in avanti. E, personalmente, mi aiutano a prendere tempo prima di affrontare quel tema che è lì, sottotraccia, e suona come un monito inevitabile: DEVI TROVARE LAVORO. Io? Sì tu, compi 45 anni, non 65, alla tua età si lavora. Soprattutto quando hai una barca da mantenere.
Adesso, non è che non abbia voglia di lavorare, mi è sempre piaciuto molto. Quello di cui non ho voglia è lo scontrarmi con il fatto che il lavoro non si trova. E anche il confrontarmi con un mondo in cui, quando ti dicono che sei aggressivo, ti stanno facendo un complimento e, quando invece vogliono smontarti, ti dicono che sei troppo buono. Troppo buono... esiste un troppo buono? Poco prima di partire, mi sono sentita accusare di essere “troppo poco commerciale”, verissimo, ma non mi ero mai resa conto che fosse un difetto. Vediamo, potrei scrivere un annuncio “Ex manager, decisamente poco commerciale, amante del mare e dei tempi lunghi del pensare cerca nuovo lavoro in pubblicità pur essendo convinta che la pubblicità non serva a vendere i prodotti”. Potrei anche farlo, tanto credo che gli annunci di ricerca lavoro, oggi, passino abbastanza inosservati.
Lavoro fisso non se ne parla, proviamo con la libera professione. Mi immagino a parlare con i manager che cercherò di incontrare per convincerli ad affidarmi qualche consulenza. Dirò loro quello che penso? Ovvero che, secondo me, il problema del nostro settore è nato quando si è deciso che la pubblicità serve a vendere i prodotti? Che è un errore? Che è quello che ha fatto morire la creatività e di conseguenza l'immagine delle aziende? Perché è quello che penso. Ma sì, che il marketing faccia il marketing e le sue promozioni con i suoi messaggi semplici, diretti e per nulla creativi, che quando hai un prodotto valido è meglio che lo dici chiaro e tondo e non ci giri intorno. E che la pubblicità, invece, faccia la pubblicità, costruisca un’immagine e un valore intorno al marchio, nel tempo e con coerenza, con coraggio e con pazienza, senza star lì con gli occhi fissi sui volumi di vendita, che non c’entra niente. Un’idea che sia un’idea non potrà mai sopravvivere allo scempio delle indagini quali-quantitative, l’originalità non mette d’accordo le masse, qualcosa di davvero creativo non può uscire indenne da un focus group con 8 frustrati eletti a giudici per un giorno e guidati da uno psicologo altrettanto frustrato perché, invece di guarire le menti, sta lì a emettere sentenze sull’efficacia di uno slogan...
Ma torniamo al mare che chi passa di qua non lo fa certo per gli stacchi pubblicitari.
L’Egeo è una terra eletta, potremo andarci ancora 10 volte e non avremo visto tutto. E anche allora, non sarà mai abbastanza perché sono isole che non ti accontenti di toccare una volta, hai bisogno di considerarle casa, tutte quante. Difficile stilare una classifica del bello, ogni luogo che abbiamo visto ha un suo ottimo motivo per essere stato nel nostro viaggio, ogni persona che abbiamo incontrato è diventata, in qualche modo, di famiglia. Abbiamo amato la Grecia molto più della Turchia, l’abbiamo sentita più vicina a noi, alla nostra idea di mare, al nostro cercare un altrove. Detto questo, penso ai nostri amici del Pleiades che sverneranno a Marmaris e penso che si troveranno bene, fuori stagione deve essere una meraviglia, speriamo solo si abituino alla costante compagnia del muezzin. P’acá y p’allá si è comportata davvero bene, è stata madre, sorella, amica e figlia, la miglior compagna di viaggio che potessimo desiderare. Anche noi con lei ci siamo comportati bene, abbiamo avuto cura di lei e, se qualche volta le abbiamo chiesto un po’ troppo, poi le abbiamo sempre concesso un po’ di riposo. Ora che è stanca, le stiamo dedicando ancora più attenzione e non lesiniamo in controlli e sostituzioni di tutto ciò che può farla stare meglio e più sicura. Prima di ripartire ci occuperemo del teak, forse le regaleremo una trinchetta e se potremo anche una bella lucidatura di scafo e coperta. Ogni ora lontano da lei, non vi nascondo, sembra un’ora sprecata. Le mattine in cui ti svegli, apri gli occhi e non vedi il mare ti chiedi cosa c'è che non va, perché qualcosa non va questo è certo. Questo viaggio è servito a farci capire che non era un viaggio, era la vita che volevamo. È ora, tornati in patria,  che ci sentiamo in viaggio, ci guardiamo intorno, cerchiamo di adeguarci alle regole di terra, ma siamo precari. Però sappiamo che come tutti i viaggi, avrà una sua fine e allora finalmente potremo tornare a casa, ovvero per mare. Questo ci fa sentire come gli altri, solo un poco alla rovescia. 
Grazie a tutti quelli che ci hanno seguito fin qui. Ci avete regalato la voglia di raccontare, ci avete supportato e accompagnato con i vostri consigli, ci avete fatto sentire in dovere di continuare a viaggiare. P’acá y p’allá va avanti, magari più lentamente e macinando poche miglia ora che è inverno, ma continuerà a veleggiare oltre che per mare, anche qui su queste pagine. Restate con noi.

giovedì 10 novembre 2011

Quasi casa, ma sempre per mare


A meno di 35 miglia da casa, la casa di P'acá y p'allá intendo, Pontile YCSS, Porto Santo Stefano, mi chiedo se il meteo non si stia in qualche modo burlando di noi. Facciamo questo ultimo tratto di mar Tirreno in giornate dichiaratamente estive, accompagnati da venti gentili da nord est, che spianano il mare, quello stesso mare devastato nei giorni scorsi dal ciclone di stampo tropicale che ha investito la Liguria. Il sole splende nel cielo azzurro, piccole nubi da buon tempo sulla terraferma. P'acá y p'allá fila che è una meraviglia un po' solo a vela, un po', quando il vento cala, con l'aiuto del motore. Noi, orgogliosamente sfiliamo di fronte alla costa laziale, come in parata militare, tra schiere di pescherecci, barchini con pescatori intenti al vertical jigging, grandi navi traghetto per la Sardegna.
Ne eravamo sicuri ed è successo, sia ieri che oggi: dopo 6 mesi in cui le autorità greche o non c’erano o se c’erano erano lì per aiutarti, eravamo sicuri che al nostro rientro in Italia avremmo trovato subito la motovedetta di turno che veniva a romperci i coglioni.
Ieri: davanti a Torre Astura, tra Anzio e Fiumicino, sentiamo intorno a noi i boati tipici delle esplosioni, guardiamo le carte e i portolani, nessun avviso di zona militare o di interdizione alla navigazione. Siamo comunque a 3 miglia dalla costa e con la radio accesa sul canale 16. “Attenzione alla barca a vela a 3 miglia da Torre Astura” tuona il VHF a un certo punto, ci inseriamo nella comunicazione per verificare se hanno indicazioni da darci, ma, silenzio, non ci risponde nessuno.  
Dopo poco si avvicina a passo di cavalleria la motovedetta dell’esercito con tanto di sirene spiegate di cui, diciamocelo, nella desolazione che avevamo intorno, non si sentiva il bisogno. Obbligandoci di fatto ad ammainare il fiocco e lascare la randa per fermarci, uno dei 3 tipi a bordo esordisce con un “siete entrati in area militare, dobbiamo verbalizzarvi”.
Adesso, un piccolo inciso che mi sono a stento trattenuta dall’esplicitare al nostro valido drappello di difensori della patria. Perché, mi chiedo, il burocrate italiano deve necessariamente parlare così male? È una cosa che mi fa soffrire dai tempi in cui ero a capo della Pubblicità di Ferrovie dello Stato, quando facevo una fatica immane a convincere altri dirigenti che la definizione “velocizzazione della relazione” non era né bella, né comprensibile ai più e che se volevamo annunciare che il viaggio in treno durava meno bisognava dirlo in maniera più semplice. Quelli erano i “ferrovieri”, che lavoravano in FS da sempre e che ci tenevano a essere ben distinti dagli “esterni”, quelli come me, appunto, che venivano anche definiti “i professionisti”, ma dal loro punto di vista non era un complimento.
Tornando al nostro manipolo militare su scafo, perché, caro caporale, tenente o colonnello che tu sia, quel “dobbiamo verbalizzarvi”? “Ver-ba-liz-zar-vi”, che orrore…. non esiste un modo diverso, meno ridicolo e  sgradevole di comunicare che intendi farci pagare una multa per un reato che, secondo te, abbiamo commesso? 
E poi, perché prima ancora di aver detto “buongiorno” dici “Dobbiamo verbalizzarvi” quando sappiamo tutti e due che poi non lo farai? Perché in Italia funziona così, le autorità al primo approccio devono minacciarti, tanto per farti sapere che loro sono su un piano decisionale rispetto a te. 
Quando ti diciamo che su nessuna carta viene riportata un'interdizione alla navigazione non sai cosa risponderci, della verbalizzazione non parli più, il tono cambia e diventa gentile, però ci chiedi di allontanarci a 5 miglia dalla costa, fare un centinaio di metri e poi rientrare. Una deviazione ridicola, lo capisci anche tu e appena ci adeguiamo all’ordine, richiami la nostra attenzione di nuovo per dirci che non serve più, l’esercitazione è finita, possiamo riprendere la nostra rotta originale. Saluti gentilmente e sembri tornato un essere umano. E il mio verbale? Non se ne è più parlato. E se io ci tenevo a essere verbalizzata? Vabbé, lasciamo stare.
Oggi, invece, a largo di S. Marinella, una motovedetta della Guardia di Finanza ci raggiunge allegramente, ci chiede di fermarci, ce lo chiedono nuovamente e con tono più autoritario mentre siamo già in folle e con la randa lascata, evidentemente ignari del concetto di abbrivio... mettono fuori i parabordi per affiancarsi, poi guardano sulla nostra poppa, vedono il tricolore francese, fanno un gesto di scuse e di saluto e, velocemente come erano arrivati, vanno via. Giovanni ci resta persino un po’ male. Io, invece, trovo un altro ottimo motivo per indossare bandiera francese, anzi magari la cambiamo con quella inglese che si vede da lontano che è diversa da quella italiana.
Capisco che non c’è molto da fare per le forze armate, che a novembre per mare non ce ne sono molte di barche da controllare e quando ne capita una è una festa, che i pescherecci che lavorano anche con il fermo pesca è meglio che li lasciano stare perché se no finisce male, ma non sarebbe meglio se tutte queste braccia rubate alla guerra dedicassero le loro energie a cose più utili? tipo, ripulire il mare, che dopo le mareggiate è pieno di pericoli per la navigazione? Così, è solo un’idea, chiamiamola “riconversione”. 
Ora che ci penso sarebbe bello che qualcuno dicesse alle truppe “Dobbiamo riconversionarvi”….
Torniamo al mare, che è meglio.
Stiamo facendo rotta sulla Feniglia, la grande spiaggia a sud dell'Argentario a sole 12 miglia da casa, sarebbe un'inezia. Ma vogliamo fermarci lì stasera perché è da lì che siamo veramente partiti 6 mesi fa. Poi, stasera c'è luna piena e non me la sento di guardarla da terra. Ma soprattutto vogliamo entrare in porto domani, alle 11 e 11 dell’11/11/11. Che sia di buon auspicio per i viaggi a venire.

lunedì 7 novembre 2011

A Gaeta, Cinema e Bufale: non sempre un cattivo connubio.


Sarà che dopo questo viaggio siamo diventati anime semplici, ma scendere dalla barca su un pontile, attraversare la strada ed entrare in un Cinema ci appare come la sintesi perfetta della felicità. 
Poi scopriamo che a 50 metri dalla barca, c'è un caseificio con la vera mozzarella di bufala, quella a km 0, fatta sul momento, davanti ai tuoi occhi; e poi, la ricottina fresca, la pizza di scarola... Arrivati in Paradiso? No, semplicemente a Gaeta.
Dovete sapere che una delle poche privazioni di questi mesi passati (forse l’unica?) è stata la latitanza dal grande schermo. Quando arriviamo, il cinema Ariston, unica sala di Gaeta, proietta “Carnage” di Roman Polanski ed è un gran bel modo di tornare al cinema. 
Pur vero che, dopo tanta astinenza, sarei entrata anche a vedere "La corazzata Potëmkin" e che nei giorni seguenti pagheremo il biglietto per vedere una cagata micidiale come “La peggior settimana della mia vita”, devo dire che "Carnage" è un film teatrale riuscitissimo, come solo Hitchcock aveva saputo fare. Lo farei vedere, Carnage, magari 10 volte di seguito,  al regista di “Due Partite” che, invece, storpiò il bel testo di Cristina Comencini in una, secondo me, inutile e mortificante trasposizione cinematografica.
Ma perché fermarsi a Gaeta, a sole 140 miglia da casa? Chiedetelo ai Russi, è colpa loro. L’alta pressione persistente sulla Russia ostacola nel suo naturale defluire, e incattivisce sulla nostra penisola, una “perturbazione atlantica autorigenerante”, definizione che a parer mio dovrebbe farla rientrare di diritto nel decalogo delle malattie più temibili e prevedere, per chi viene contagiato, un indennizzo a vita. La bastarda, chiamiamola così per praticità, è alla base delle alluvioni a Genova e in Piemonte, quella che ha fatto litigare sindaci, Protezione Civile e siti meteorologici nel consueto gioco di scarico delle responsabilità, quella che ha portato a scrivere su tutti i portali meteo “Emergenza Maltempo” con tanto di sottolineatura. Ma soprattutto, vista dal nostro piccolo angolo di mondo, quella che sta rallegrando il mar Tirreno con burrasche sciroccali che a tratti degenerano in tempesta. E va bene che è ora di tornare e sul vento a favore non ci si sputa mai sopra, ma proprio essere spintonati a quel modo non ci va. Mentre le previsioni coloravano istericamente le carte dei giorni a venire di rosso, bordeaux e addirittura rosa, colore normalmente innocuo che viene invece cinicamente utilizzato per rappresentare il forza 9, decidemmo quindi che Gaeta valeva bene una sosta.
Il Base Nautica Flavio Gioia è una bella sorpresa, un porticciolo molto ben protetto, tra i meno costosi del Tirreno Centrale, situato proprio nel cuore della cittadina che ha parecchi pregi e una certa piacevole vitalità. Ogni giorno ci convinciamo che l’indomani si parte e ogni giorno ci ubriachiamo di colori meteo e rimandiamo. La mozzarella di bufala ha le sue responsabilità ma sono soprattutto quei rosa sulle cartine, unite ai rossi e gialli che identificano le onde superiori ai 3 metri che ci spingono ad aspettare.
Nel frattempo, assistiamo ad una celebrazione delle forze armate con uno sparuto e per niente formale drappello di carabinieri, finanzieri, marinai, due crocerossine e un solitario dell’esercito. Niente banda, un piccolo stereo con due casse e un mp3 con i brani militari ripetuti in loop. Quando parte “il silenzio”, pezzo lievemente fuori tema, velocemente lo fermano e si passa al brano successivo. Un po’ casereccia come rappresentazione, ma verace. 
Domenica, gli sportivi di Gaeta di tutte le età si sono cimentati in una corsa cittadina che ha registrato una notevole partecipazione. I percorsi non erano chiaramente segnati, tanto che un corridore si è fermato a un incrocio a chiedere dove doveva andare; il traffico non è stato fermato né deviato e  diversi partecipanti hanno rischiato di passare alla cronaca, non tanto per il risultato sportivo, quanto per essere falciati dalle automobili. 
Gaeta è ricca di belle chiese come la romanica S. Giovanni al mare, peccato che o sono in restauro o chiuse per insondabili motivi. Ma la passeggiata al borgo medioevale è piacevole e ti regala la voglia di scoprire quei posti italiani così vicini a te che, chissà perché, non hai mai messo nei tuoi itinerari. Esaurita in lungo e in largo Gaeta, abbiamo preso un autobus per Formia e fatto 3 km a piedi tra viadotti e superstrade per raggiungere la Multisala del Mare e drogarci di nuovo di Cinema, visto che “la peggior settimana della mia vita” resta in programmazione per tutta quella che sarà la “peggior settimana del Cinema di Gaeta”. 
On boat, ci proiettiamo il dottor Zivago, esplicito omaggio all’alta pressione Russa, sperando serva a farla desistere o a farle vincere definitivamente il confronto con la sorella bassa e cattiva, tanto per farci fare senza troppa fatica queste ultime 140 miglia.
Perché adesso, con la pancia piena di mozzarella, ricotte, pizze di scarola e quant’altro, noi saremmo anche pronti a ripartire. Glielo dite voi a questa bastarda autorigenerante?

lunedì 31 ottobre 2011

Da Crotone a Tropea – La lunga tappa


Crotone - Tropea. 63 miglia in linea d’aria che, non potendoci issare P'acá y p'allá sulle spalle per un originale Calabria coast to coast, diventano inevitabilmente 160 miglia per la via naturale del mare. Il vento a favore ci spinge ad affrettarci, l’ingenerosa costa calabrese in termini di porti o ridossi ci porta a considerare la validità di questa lunga tappa come un no-stop. Intendiamoci, 160 miglia non sono poi tante per chi va per mare, la maggior parte dei naviganti sulla nostra strada sceglie di tagliare dalla Grecia alla Sicilia facendo un’unica tappa da 300 miglia. Di solito però sono in equipaggio più numeroso, navigando di notte è consigliabile che ci sia sempre più d’uno di turno al timone e noi siamo appena appena più d’uno, di cui uno è valido capitano, l’altro decisamente meno. Facciamo quindi 29 ore di navigazione consecutiva incluse 3 ore di sosta tecnica davanti a Bova Marina, proprio sotto la punta dello stivale, giusto per aspettare che albeggi prima di intraprendere lo Stretto di Messina. 
Ci capita di fare questa tappa proprio la notte di luna nuova e quella del passaggio all’ora solare. Ora, dovete sapere che per qualsiasi argomento di natura matematica io ho una fiducia totale in Giovanni e una resa incondizionata sulla mia incapacità di fare qualunque tipo di calcolo. Per questo motivo, non oppongo nessuna resistenza alla sua decisione, arrivati a Leuca, di non sincronizzare gli orologi sull’ora locale.  
“Non cambiamo l’ora, tanto domani in Italia con l’entrata dell’ora solare, dovremmo rimettere gli orologi avanti e quindi tornare a quella che oggi consideriamo l’ora greca”. Il ragionamento non faceva una piega, era perfettamente in linea con la mia pigrizia e la mia voglia di restare greca ancora per un po’, per non parlare del fatto che da più di 6 mesi non porto l’orologio. Quindi, aderisco senza protestare alla brillante iniziativa. Peccato che è proprio su questi calcoli che Giovanni basa l’ora della sveglia a Bova Marina, le 5, ovvero 2 ore dopo aver buttato l’ancora. Ma c’è qualcosa di strano nell’aire al risveglio che mi obbliga a cimentarmi, nel nero di una notte senza luna, in un’attività che, come sopra ammesso, non mi è affatto congeniale: ragionare in maniera concreta e matematica. Una volta usciti dai bassifondi e issate le vele, un tarlo nella mente (e il buio che persevera) mi spingono a compiere un’attività cerebrale decisamente superiore alle mie possibilità del momento con esercizi del genere "se tu hai una mela e io ti dò un’altra mela, quante mele hai?", per arrivare infine a dedurre che, se il tramonto arriva prima, anche l’alba arriva prima, quindi gli orologi degli italiani non vanno spostati un’ora avanti ma un’ora indietro. Da quel momento, il passaggio a comprendere che non sono le 5.27 ma le 3.27 è gioco da ragazzi. 
Alle 3.27 ora locale, un grido spezzò l’incanto della notte calabrese: il mio. Il capitano a quel punto, dopo essersi sbellicato dalle risate per il mio accusarlo di avermi defraudato ingiustamente di 2 ore di sonno,  abusa della mia ormai ridottissima capacità intellettiva per tentare di convincermi come, errore o no, i tempi da lui scelti per l’arrivo nello stretto fossero perfetti . Non saprei dirvi di più, non ho neanche tentato di capire, un altro tarlo si affacciava alla mente: se i calcoli dell’ora solare erano sbagliati, che ne è del timing delle correnti sullo stretto elaborate dal capitano per sfruttare le cosiddette montanti? 
A chi non conosce il tema, va detto che lo stretto di Messina è soggetto a forti correnti in un senso o nell’altro a seconda dell’ora e del giorno. Tali correnti possono arrivare a 5 nodi e incidere quindi notevolmente sulla velocità della barca, non serve sottolineare che se sono contrarie può essere totalmente inutile tentare di avanzare, tanto vale fermarsi e aspettare 6 ore che cambi. Non solo le correnti erano state calcolate sull’ora solare sbagliata,  peggio, non era stato considerato che le tabelle che riportano i dati sono basate sull’ora di Greenwich, la cosiddetta UTC, ovvero navighiamo con un’errore di 3 ore. Ciò però non fa danno alcuno perché le correnti durano 6 ore, anzi, ci troviamo a percorrere lo stretto nel momento di massima della montante registrando velocità record di oltre 11 nodi, roba che per vederle ci vogliono 40 nodi di vento in poppa. In tutto questo, lo stretto è una meraviglia, mi perdo lo spettacolo dell’alba perché la fatica cerebrale mi fa crollare in un breve sonno ristoratore subito prima, ma non rinuncio al minuetto di traghetti da una sponda all’altra che, me lo dite voi che fine fanno se si fa il ponte? Ma per fortuna il Ponte non si fa. 
Il porto di Tropea ci accoglie come un amico fraterno e lì riesco anche a riconquistare un sapore perduto: la liquerizia. Lo sapete che in Grecia e in Turchia non esiste in commercio la liquerizia? Non per i canali ufficiali, almeno. Nei supermercati trovi tutti i prodotti italiani, dalla pasta ai pelati, dal tonno ai biscotti, alle cioccolate e alle caramelle ma nulla, proprio nulla che abbia come ingrediente la liquerizia. A Fetiye ho anche azzardato chiedere alla gentile commessa del Turkcell shop se sapeva dove potessi trovarla. Non aveva idea di cosa fosse “Liquorice”, incuriosita ha digitato su Google translator e, visto il risultato, ha sgranato gli occhi e mi ha chiesto con uno sguardo a metà tra l'ammirato e l'allarmato “e cosa deve farci???”... neanche avessi parlato di oppio. Ecco un lavoro che potrei fare, esportare liquerizia in Grecia e Turchia, non prima però di aver fatto una adeguata campagna pubblicitaria per il lancio del prodotto.

giovedì 27 ottobre 2011

Rientro in Italia. E siamo ancora a metà strada.


Il giorno in cui rientriamo in Italia la Borsa di Milano apre in deciso rialzo. Mi lascia perplessa (lo stesso, immagino, voi) la possibilità che tra le due cose ci sia un nesso. D’altra parte, mi sembra ancora più incredibile che gli entusiasmi del mercato finanziario possano essere dovuti alle misure anticrisi presentate da Berlusconi a Bruxelles. Altri fatti rilevanti non ne vedo, propendo quindi per l’ipotesi a noi lusinghiera, ovvero che il rientro di P'acá y p'allá crei automaticamente valore per il mercato italiano. In effetti, ci presentiamo a Santa Maria di Leuca con circa 15 chili di prodotto da importazione, un tonno rosso, pescato nella traversata in acque ancora greche, che fa felice un’intera banchina. Per meglio dire, lo skipper di un bel Baltic 49 e un paio di portuali locali. Questo porto che già sembrava terreno morto a Giugno, ora è assolutamente desolato.Ce ne teniamo un filetto per noi e regaliamo il resto. La nostra attesa nel lasciare la Grecia è stata (finora) premiata: lasciando l’ancoraggio a nord di Corfù, dove ci siamo regalati anche un coraggioso ultimo bagno greco, vediamo le nuvole che ci passano sopra la tesa, vanno verso la Grecia e sgombrano il cielo italiano. L’allerta meteo, come sempre lanciata dai meteorologi dopo il fenomeno alluvionale ligure sottovalutato, si sgonfia e se va bene dovremmo evitare pioggie e fenomeni intensi nello Ionio. Abbiamo quindi registrato una giornata regalata, con un bel sole caldo, vento favorevole di 15-20 nodi e una navigazione al lasco veloce anche se con mare discretamente mosso. 
Propongo di immolare il tonno rosso, di cui non vado per niente pazza (tonno rosso non avrai il mio scalpo), alla madonnina di S. Maria di Leuca per averci protetto nella traversata, ma Giovanni preferisce la concretezza dell’omaggio a terra. Per me va bene tutto, basta togliere quel cadavere dalla plancetta di poppa che mi fa tanta tristezza. Mentre si combatteva per la cattura della bestia, passiamo accanto ad una tartaruga sonnolenta che guarda incuriosita la lotta facendo palesemente il tifo per il cacciatore, addirittura mi pare di leggere da parte sua all’indirizzo del tonno un soddisfattissimo e cinico gesto dell’ombrello. Tartarughe – Tonni 1 a 0, palla al centro.
Papà chiama e tira un sospiro di sollievo, per lui il fatto che siamo a Leuca è come se fossimo arrivati. In realtà siamo solo a metà strada visto che da qui a casa sono più di 500 miglia, l’equivalente, se tornassimo indietro sulla nostra rotta, a rimettere la prua su Fetiye, Turchia.
Ma i giorni che abbiamo davanti sono ben diversi da quelli passati: navigazione, navigazione, navigazione. L’obiettivo di rientrare a casa per l’estate di San Martino ci porta a correre e a sfruttare al massimo i venti favorevoli alla risalita. Soffro però a non poter aspettare l’apertura del Caseificio del Capo a Leuca, che il pomeriggio è chiuso, il sogno della burrata e della ricotta stagionata mi aveva addolcito l’idea di lasciare la Grecia. Pazienza, ci regaliamo però un gelato e una prima colazione all’alba alla pasticceria Martinucci, punto di riferimento e di ritrovo per i 4 abitanti invernali di queste parti.
Da un punto di vista economico, l’Italia ci accoglie stranamente con approccio greco. L’ufficio del marina dove dovremmo pagare l’assurdo dazio è chiuso oggi per motivi personali del dipendente incaricato e quindi, come dice l’ormeggiatore “viaggiate in pace, ci si rifà un’altra volta”.
Fin qui, quindi, complici la fiducia in noi dei mercati finanziari, il generoso ellenismo del marina di Leuca e il cremoso cappuccino di Martinucci, resistiamo e la prua continua a essere rivolta a Ovest, in seguito vedremo…

martedì 25 ottobre 2011

Stand by Paxos. Se partire è un po’ morire, tornare cos’è?


E ce ne stiamo qui, tranquillamente ormeggiati al porticciolo di Gaios, nell’isola di Paxos. Autunno o non autunno, c’è un andirivieni di barche, sono soprattutto charteristi inglesi e scozzesi che sfruttano le settimane low price in questo campo di regata ideale che sono le Ionie. Vanno, vengono, a volte ritornano. Noi, invece, stiamo. Noi,  il Pela, una barca svedese e una barca in acciaio di una coppia francese. Loro aspettano di proseguire verso sud, noi invece di partire per la lunga tappa verso Crotone, 140 miglia di Ionio o quella più breve per S.Maria di Leuca, 90 miglia. 
Il vento è favorevole a noi – oh, finalmente uno scirocco che ci è favorevole -  ma le perturbazioni continue sul litorale ionico italiano ci impigriscono e ci portano ad aspettare. Aspettare cosa, poi? Sarà una credenza popolare ma dicono che più si va avanti più il tempo tenderà a peggiorare. D’altra parte c’è una sola certezza, il vento favorevole da qui si accompagna alle perturbazioni, c’è poco da fare, solo da scegliere se prendere più vento e mare e meno acquazzoni e lampi o viceversa. Propendiamo per la prima ipotesi e attendiamo. 
Non tanto però, non è il caso. Il 28 ottobre si celebra l’anniversario della “Giornata del No” a Gaios, stanno allestendo le bandiere lungo il molo, gli studenti verranno a sfilare in processione. Beh, carino da vedere, direte voi, perché andarsene? La giornata del No, rappresenta la celebrazione del 28 ottobre 1940, giorno in cui Metaxas rifiutò di cedere le armi all’invasore italiano Mussolini, riportando poi una secca vittoria e costringendo il duce a ritirarsi fino a Valona. Mai come oggi sono contenta che P'acá y p'allá vesta bandiera francese…
Il vero motivo della nostra attesa di un tempo più stabile è che stare bloccati in porto a Gaios rispetto ad esserlo a S.Maria di Leuca o Crotone comporta una differenza notevole in termini economici. 
Mentre qui te ne stai tranquillamente ormeggiato gratis, il paese è contento lo stesso perché fai la spesa, vai a cenare fuori, prendi il caffè e questo si chiama indotto, in Italia, dove ottobre non è ancora bassa stagione, un porto come S. Maria di Leuca ti chiede 65 euro al giorno.  E parliamo dello Ionio, se sei bloccato a Procida arrivi a 90 euro. Il costo dei porti italiani è scandalosamente alto ed è motivo di sdegno da parte dei marinai di tutto il mondo. “Sharks” li abbiamo sentiti definire più volte. D’altra parte anche gli stipendi dei parlamentari italiani sono i più alti d’Europa, quindi di che stupirsi? Comunque sia, fa uno strano effetto, a noi italiani pensare che in situazioni di tempo avverso sia più confortevole stare in Grecia che nel nostro Paese.
Si sta bene a Gaios, un cane ci adotta e si accomoda sul moletto davanti alla nostra barca a fare la guardia, un gruppo di oche passeggia starnazzando su tutta la banchina e ogni tanto, quando è stufa della compagnia, si alza in volo. Il viavai delle barche a vela che entrano e escono da un porto obbligato per conformazione alla sovrapposizione delle ancore movimenta un po' la giornata e ti fa fare amicizia.
Abbiamo il privilegio di incontrare Andreas Gabriel, un avventuriero, quello che nell’accezione comune viene definito un vero e proprio sciroccato. La sua sì che è una sfida, con tanto di sponsor e di record da segnare su un libro dei primati o da guardare su Discovery Channel. 
Questo ragazzo di Amburgo è partito a maggio dalla Germania, ha percorso acque interne di fiumi e canali fino a sfociare nel mar nero, poi Istambul, mar di Marmara, Egeo cicladico, Corinto. Da qui, scorrerà la lunga penisola italica, poi la costa francese, quella iberica fino a Gibilterra e da lì Atlantico e poi mare del Nord per rientrare in Germania. Quando? Non si sa, è questa la sfida. Come? Qui sta il bello: si è creato un catamarano artigianale fatto con due kayak uniti insieme da pezzi di alluminio, ha issato due pali, cucito due vele latine e via. 
Con sé, nello spazio limitato ed estremamente bagnato dei kayak, qualche cosa per sopravvivere: una tenda e una sedia da campo, un gps chiuso in una scatola stagna e poco altro. La sua velocità media è tra i 5 e gli 8 nodi anche se in Egeo ha toccato i 17 nodi. Ha la barba lunga, quando tornerà a casa ci penseranno i suoi due bambini a sbarbarlo. Forse lo incontreremo di nuovo in Italia anche se lui ormai viaggia più lentamente, max 50 miglia al giorno, quel che la resistenza al freddo e all’umidità gli consente. Quando arriva, su una spiaggia o a un porto che sia, svuota i kayak, mette tutto ad asciugare, si prepara il giaciglio di fortuna e racconta la sua storia a chi si dimostra un po’ curioso. Non oso immaginarlo in Italia dove sarà sicuramente fermato dalla Guardia Costiera che vorrà verificare le dotazioni di sicurezza… Vagliela a spiegare "la sfida" alle nostre moderne autorità portuali.

venerdì 21 ottobre 2011

Back to the Ionians. Sulla strada vecchia.


Mi rendo conto che a Pilos mettiamo piede sul continente dopo parecchia assenza, l’ultima volta era stato a Turgutreis, Turchia, ai primi di settembre. Quello greco invece lo avevamo toccato l’ultima volta circa 4 mesi fa. Nel frattempo, solo isole sotto i nostri piedi. Restiamo un paio di giorni a Pilos a prendere ettolitri di pioggia che questo cielo aveva proprio voglia di scaricare insieme a qualche migliaio di fulmini. Ci attardiamo con la complicità del portuale che, quando andiamo a timbrare il Dekpa per la partenza, ci dice “Noooo, non potete, domani c’è un forza 8 in arrivo”, ci sembra strano, le previsioni non dicono nulla del genere, nulla di diverso dalla situazione tipica della coda di una perturbazione: mare in scaduta, onde grandi ma morte, come si dice in gergo, vento stanco che tende a calare. 
Ma il ragazzo è talmente convinto, talmente preoccupato delle nostre intenzioni che non ce la sentiamo di deluderlo, va bene, restiamo un giorno in più, che fretta c’è? Lo scenario che ci regala Pilos dopo il temporale è degno degli acquerelli di Turner, lo sguardo si riempie di luci e ombre,  P'acá y p'allá diventa ancora più bella (e più pulita). Con questo ritmo rischia di diventare una barca d'acqua dolce.
Riapre la farmacia e riusciamo a ritrovare il farmacista che avevamo incontrato a Kythira, a luglio, con la sua barchetta di 8 metri. Resta sorpreso nel rivederci e felice del nostro incontro. "Peccato che ripartite" ci dice, nell'italiano perfetto di chi l'università l'ha fatta in Italia "vi perdete la celebrazione della battaglia di Navarino anche se quest’anno non sarà festosa come sempre, le autorità chissà se verranno, visto che probabilmente il governo non arriva a fine settimana, stavolta non ce la fa e allora sì che le cose si faranno dure per la Grecia"
Poi ci guarda contrito, dicendo che l’Italia seguirà a ruota, è inevitabile anche se lì forse il governo non cade, perché agli italiani in fondo quel tipo lì piacerà sempre. Al molo insieme a noi la barchetta del marsigliese solitario e una bella barca Pearson con un ragazzo americano a bordo decidono di partire, fanno rotta direttamente sullo stretto, 300 miglia da qui, ma hanno il timone a vento, mettono a segno le vele e poi giù a dormire, ci vorranno 3 giorni e 2 notti.
Quando partiamo noi, è tornato il sereno, del forza 8 non si è vista l’ombra, ma grazie al portuale prudente facciamo una bella navigazione accompagnati da un sole caldo che ieri non c’era. Rotta sulle isole Ionie, scegliamo di ripercorrere la strada dell’andata. Dopo 5 mesi di scoperte abbiamo voglia di riscoprire ciò che abbiamo già visto in un’altra stagione, abbiamo voglia di certezze, di luoghi amici ad attenderci.
Unica eccezione a Zacinto, dove scegliamo di fermarci al porto che non avevamo toccato a giugno, saranno le nubi e i temporali dei giorni passati, sarà l’aria fresca autunnale ormai dichiarata, ci viene voglia di andare in “città”. Ed è qui, per la prima volta, che respiriamo la crisi greca. Nulla a che vedere ovviamente con quello che le crisi fanno alle grandi città, Zacinto è comunque terra che vive di turismo, ma ora, nel fuori stagione, la desolazione si fa sentire.
La maggior parte dei negozi e anche il Museo Bizantino sono chiusi, in concomitanza con la 48 ore di sciopero generale contro le misure di austerity decise dal governo. 
Sulle vetrine, una locandina recita in lingua locale qualcosa come “Chiudiamo oggi per non chiudere per sempre”, nel visual didascalicamente una catena e un lucchetto. Perché sia chiaro anche ai turisti, anche se di turisti qui non ce n’è davvero più nessuno. Ora qui a Zacinto, nella piazza grande dietro al porto, la crisi che non abbiamo sentito per mesi e mesi, che non abbiamo mai letto né in uno sguardo, né in una risposta, né tantomeno in un qualche forma di trascuratezza,  crisi che abbiamo forse intuito (o magari solo immaginato) nelle discussioni di cafenéion, ma nulla di più. Ora sì, ora la crisi si sente, si tocca con mano. Un drappello irrisorio picchetta il Cosmote shop (saranno 8 o 10 persone con un piccolo striscione e l’aria mesta). 
Dagli altoparlanti suonano gli Inti Illimani, ma anche Bella Ciao, il ché ci lascia un po’ stupiti e commossi. Qualche ragazzino con gli zaini di scuola, una ragazza con un megafono dice qualcosa in difesa dei giovani e degli operai, o almeno così sembra. Sarà anche la fine della stagione, che in un porto grande come Zacinto, oggi desolato, fa una qualche impressione, ma è come essere tornati alla realtà di un mondo che all’incontrario va. Così come ci siamo fermati, leviamo l’ancora e ce ne andiamo via, verso il mare, verso un’isola più piccola, per cancellare ancora una volta la cruda realtà sociale e mediarla grazie alla semplice vita di mare, non solo nostra ma anche di quelli che sul mare ci vivono e ci lavorano e che i soli problemi che hanno sono se gli sequestri le reti o se gli metti il fermo-pesca.
È tornata l’estate nel frattempo, venti leggeri, mare calmissimo, sole che splende in un cielo sereno. Un saggio ne approfitterebbe e taglierebbe immediatamente verso Ovest, rotta su Crotone o Reggio Calabria. Noi no, preferiamo risalire ancora un po’, almeno fino a Paxos, per accorciare la traversata e, forse, illudendoci che magari quest’anno l’inverno salta un giro. Resistiamo, non senza una certa fatica, e superiamo l’incrocio con Corinto senza svoltare a destra. Sarebbe così facile, così logico, andare di là e noi invece proseguiamo. Il vento ci aiuta a superare  questa impàsse, soffiando dolcemente da Est, come a dire “su, su, è ora di tornare a casa”, un po’ come mi svegliava la mamma il primo giorno di scuola, cantilenando “di studiare è giunta l’ora è finita la cuccagna”. Ora che ci penso, mi sa che questo vento da Est lo ha mandato la mia mamma.
A Itaca, ci fermiamo sia a Vathi che a Kioni, due paradisi del fuori stagione. È bello ora, in ogni porto trovi l’ormeggio migliore, nello stesso tempo, Itaca è sempre campo attivo nella vela, trovi altre barche, non c’è desolazione. A terra, un terzo dei ristoranti è aperto e sul molo i proprietari di negozi si dedicano alla pesca, magari ci scappa una spigoletta ma per lo più sono occhiate. Ritroviamo le Ionie ancor più verdi di come le abbiamo lasciate a giugno, ma probabilmente è questione di luce più bassa. Ci regaliamo un bagno nella bellissima Atoko e incontriamo una flottiglia di barche a vela che ci rovina un po’ l’inquadratura e ci spinge ad andarcene. 
Personalmente sarei favorevole ad un decreto che vieti la navigazione charter in flottiglia, ma questi sono silenziosi o forse è la stagione che invita al silenzio. L’acqua è ancora abbastanza calda, sopra i 20°, è il sole che scalda molto meno. Il tendalino riposa, non c’è più bisogno di lui. Ora stiamo scorrendo la costa occidentale di Lefkada con rotta su Antipaxos. In questi giorni, la mente vola ai lavori da fare alla barca, alle attività di manutenzione, agli elenchi con i bullet point delle cose da fare. Ed inevitabilmente tende a cadere anche su quegli elenchi di cose “cittadine” cui dovremo in qualche modo, prima o poi, pensare: la revisione della macchina, del motorino, i bolli da pagare, i controlli medici, mi dicono addirittura un censimento a cui rispondere, le utenze da riattivare. Roba che nella migliore delle ipotesi ti fa venire un’allergia. Non ci pensiamo ora, davanti c’è Antipaxos con le sue spiagge bianche e le acque turchesi e almeno oggi, qui è ancora estate.

domenica 16 ottobre 2011

Arrivederci Egeo.


“Per altre vie, per altri porti verrai a piaggia, non qui per passare...” (Dante Alighieri – Inferno Canto III). Non è l’anno di Corinto, si vede che è destino che noi quel canale lo facciamo nella direzione consueta, quella descritta dai portolani e dagli itinerari della maggior parte dei naviganti, da Ovest verso Est, in primavera, andando verso l’Egeo con casa alle spalle e davanti il viaggio. Se aspetti da Milos le condizioni giuste per risalire e dirigerti a Corinto, si fa presto Natale. Il nostro programma era un po’ ingenuo: risalire nord per nord, tratti brevi, isola per isola, prima Sifnos, poi Serifos, poi Kithnos poi tagliare per Hydra ed entrare nel Golfo. Sulla carta non fa una piega, ma per farlo così dovresti aspettare i venti da sud e con quei venti nelle isole non ci sono ridossi, appunto, si fa Natale. 
Forse una via alternativa è quella di puntare sul Peloponneso Orientale e provare a risalire da lì, almeno prendiamo tempo e rimandiamo la decisione. Partiamo quindi, non appena finisce la burrasca, quella che doveva essere un forza 10 e che si è poi assestata su un forza 8, e mettiamo la prua a metà strada tra Monemvassia e Capo Maleas in attesa che i bollettini meteorologici si mettano d’accordo tra loro: alcuni prevedono per i prossimi giorni venti deboli, altri di nuovo venti forti da nord est. Tipico da quiete dopo la tempesta questo imbarazzo meteorologico, dura anche 24 ore, poi prevale una teoria e  gli altri seguono a ruota. Ci colleghiamo per controllare e il verdetto è ormai unanime: nei prossimi giorni una perturbazione con venti forti da Nord Est interesserà il Peloponneso orientale e i colori della via continentale per Corinto dicono in maniera esplicita “lasciate stare”. 
Qualche grado verso sud e la barca fa rotta su Capo Maleas, il temibile Capo che regala tanti naufragi e di solito il raddoppio del vento tout court nelle sue vicinanze. Oggi è bonaccia e quindi nessun timore. Riprendiamo quindi una strada nota e già percorsa, quella del Peloponneso occidentale, ci aspettano posti che abbiamo già visto e questo crea un forte effetto nostalgico. Sento i miei piedi che si puntellano sul mare e che vorrebbero che facessimo come Bernard Moitessier (all’epoca del giro del mondo a vela, in solitario e senza scalo) che, trovandosi primo dopo aver doppiato i 3 capi, disse per radio che il premio non gli interessava, si ritirava e di giro del mondo andava a farsene un altro. Ecco, molto più in piccolo, ma farei proprio così, voltare la prua e tornare verso Est a rivedere tutto e a vedere quello che abbiamo dovuto saltare, soprattutto Kassos e Astipalea, ma anche Samos e Chios o la Calcidica. 
E invece no, doppiando Capo Maleas salutiamo l’Egeo e rientriamo nello Ionio, si crea in me la strana sensazione di aver lasciato la Grecia e di essere in territorio nostrano, non so perché ma il distacco dalle Cicladi mi fa questo effetto. Oggi è di nuovo estate e questo contribuisce a rendere innaturale il concetto di rientro. Resto silenziosa e insopportabile per un paio di giorni, più insopportabile che silenziosa, direi... Poi mi viene in mente che arrivati all’altezza di Patrasso, si può sempre mettere la freccia a destra e prendere il canale di Corinto nel verso giusto per rituffarsi nell’Egeo. Questo mi convince che non è ancora detta l’ultima parola. 
Giovanni vive meglio di me questo percorso, sarà perché come rientriamo nello Ionio un tonno abbocca all’amo, sarà perché ci sono ancora molte cose da vedere come Cefalonia, sarà quel che vuole ma ci mette un bel po’ a convincermi. L’autunno si fa sentire e per un giorno d’estate regalato devi scontare almeno un paio di giorni freddi e difficili per mare. La regola diventa che quando le condizioni sono buone e gentili si naviga per guadagnare miglia e mare, quando il vento e il cielo si arrabbiano si sta fermi in porto o in qualche rifugio sicuro. La notte arriva prima e una tappa di 80 miglia ti fa arrivare all’ancoraggio che è ormai tramontato il sole. In due giorni scorriamo buona parte del Peloponneso sfiorando le tre dita, senza entrare nei golfi. 
Dopo aver scoperto un moletto minimo e dimenticato a Paleokastro dove passiamo la notte in compagnia di un paio di pescatori da terra, guardiamo Elafonissi in un’alba fredda che non invita a perderci tempo per fare un bagno, sfioriamo Porto Kajo e la sua atmosfera piratesca continuando a navigare per sfruttare il vento debole di sud est, mettendo in campo tutte le forze propulsive che abbiamo, motore e vela. 
A sera arriviamo davanti a Finikounda dove passiamo una notte tra lampi, temporali e rollìo che ci aiuta a muoverci presto per arrivare al porto di Pilos, dove troviamo il “nostro” molo, vediamo la barchetta del farmacista che avevamo incontrato a Kithyra, incontriamo un francese solitario su un 8 metri che viene da Tinos ed è diretto a Marsiglia. Sono giorni di grandi letture, essendo sulla strada del ritorno, mi azzardo a intaccare la riserva di libri cartacei per risparmiare l’energia dell’e-book reader. A proposito, sappiatelo, era solo fanatismo il mio dire che un libro non è libro se non è di carta, il profumo, il rumore delle pagine sfogliate. Tutte cazzate, davvero. 
E quando riprendi in mano un libro cartaceo senti che pesa e c’è una differenza infinita nel tuo giudizio finale tra un libro scritto con corpo 10 e uno con corpo 8 che non ha nulla a che vedere con il testo,  perché lì sul cartaceo non è che puoi discretamente cambiare la dimensione del testo…
Pilos e Methoni sono due capolavori inseriti nel Peloponneso e troppo spesso dimenticati dal turismo culturale. Anche a Pilos c’è una bellissima fortezza costruita dai Turchi nel 1.500, da vedere. Due belle mappe geografiche antiche nel museo all’interno della fortezza mostrano il Peloponneso quando il Canale di Corinto non esisteva e il golfo omonimo si chiamava Lepanto. Ecco, vista in quest’ottica è più accettabile, basta vivere il Peloponneso per quel che è in origine, un promontorio, e il fatto di non averlo "scavalcato" suona anche per noi molto più naturale.

mercoledì 12 ottobre 2011

Milos. I campi flegrei a bagno nell’Egeo.


No, lasciate perdere le solitamente nordiche opinioni sull’Italia partenopea, quelle dell’occhio viziato dalla cronaca che prima del bello vedono il devastato, prima della poesia del territorio leggono la corruzione di un luogo in mano alla criminalità delle cosche e, perché no, anche dello stato. 
I campi flegrei a cui ci fa pensare Milos sono quelli della terra e delle rocce, del miracolo della conformazione geologica che ogni tanto regala scenari unici al mondo. Se ti dicono “se non hai visto Milos non hai visto la Grecia”, sbagliano. A Milos non ti sembra di essere in Grecia, ma più a Procida o nella solfatara di Pozzuoli, o a Ponza, o anche a Bacoli e Capo Miseno, insomma da quelle parti lì. Il nostro periplo dell’isola è graziato da un gentile venticello di nord, deve essere il fratello ben educato del Meltemi, che ci regala una costa sud strepitosa, riparata e senza le eccessive raffiche estive; allo stesso tempo è reso impegnativo dal vademecum che ci ha mandato mio fratello Paolo, da sempre fautore di Milos che sta meditando di acquistare un terreno edificabile proprio qui.
Come al solito, la cartina dettagliata dell’isola la troveremo solo una volta arrivati in porto (sarebbe bello se i Greci imparassero a vendere nella singola isola anche la carta delle limitrofe…) per cui ci muoviamo con le nostre carte nautiche, il Navionics e le descrizioni di Paolo ricche di nomi che non vengono riportati sui nostri strumenti. Riusciamo però a raccapezzarci e devo dire che il vademecum è molto preciso, i superlativi usati forse a volte un po’ over-promise, le spiagge migliori tra il suo giudizio e il nostro non collimano sempre, ma la cosa che non si può non condividere è come Milos sia cento isole messe insieme. 
È necessario sottolineare una cosa. Milos è una delle poche, forse l’unica tra le isole più belle che abbiamo visto, in cui la casa con la vista migliore sarà sempre una barca in rada. Sembra ovvio, soprattutto detto da noi, ma non lo è affatto. Patmos, Amorgòs, Folègandros, Lipsi sono isole belle da mare, ma strepitose dalle altitudini, la parte più bella di Milos invece è fatta di quelle decine di metri di perimetro esterno che quasi ovunque cadono verticali in acqua: quindi da terra non la vedi o se la vedi, ne vedi scorci dall'alto, mentre dal mare quei metri di scenografia spettacolare incombono su di te e paiono immensità. 
Qui, il protagonista assoluto è il frutto della natura stessa di quest’isola vulcanica, non a caso piena di cave a cielo aperto e di basi di carico per le navi, ovvero la materia geologica. Un artista non avrebbe potuto creare geometrie più perfette con la lava e con i vari materiali vulcanici. Le rocce si ergono alte a Firiplaka nei colori del bianco gesso, del rosso e del giallo fusi insieme, il tramonto la rende magica, la mezza luna abbondante di notte crea uno spettacolo da andare a vendere i biglietti: è il nostro posto preferito, non c’è dubbio. 
Le geometrie labirintiche di Kleftiko sono incredibili, un dedalo di grotte e passaggi tra le rocce grigio perla verticali e al centro un grande prisma di roccia che si passa da parte a parte. Certo, siamo a ottobre, insieme a noi nell’isola ci saranno una mezza dozzina di barche a dir tanto, a terra nessuno, d’estate piena deve essere ben più affollato ma di spazio a Milos ce ne è davvero tanto.  A confermare la quiete del post-estate, di mattina presto incrociamo una foca monaca a 300 metri da riva, diretta alle grotte. 
Alza il muso e fa vibrare i suoi baffi per annusarci, poi infila la testa sott’acqua e ci saluta mostrandoci la coda senza concederci il bis.  Sembrava più stupita lei di vedere noi che viceversa e dire che qui di barche ad agosto ne devono essere passate parecchie, non come a Creta...
Dicevamo le spiagge, non ci commuoviamo più di tanto per la decantata spiaggia di Gerakas, fatta di perlite, o per quelle della costa ovest Triades e Ammoudaraki, mentre restiamo ammaliati da quella di Kambanes, altra caduta a picco di rocce multicolori. 
Ancorati al tramonto in questa baia, se ti dimentichi dei Campi Flegrei, pensi di essere  sotto le tre cime di Lavaredo. Il mare di Milos è bello, non unico, non speciale come quelli visti a sud di Creta o a Gramvousa e noi gli preferiamo anche quello del Dodecaneso, forse i materiali vulcanici gli tolgono un po’ di limpidezza ma,sia chiaro,  stiamo parlando di confrontare meraviglie.
Bisogna anche dire che noi stiamo vedendo questi posti con ormai una luce diversa, quella autunnale con il sole più basso sull’orizzonte, luce che nobilità tutto ciò che è verticale (le rocce) e penalizza ciò che è orizzontale, appunto il mare. 
A nord, visto che il vento è così gentile da farcelo visitare spostandosi a soffiare da sud, la Sarakiniko che trovate su tutte le cartoline di Milos è davvero un luogo speciale: rocce bianchissime a terrazzamenti per uno spazio molto esteso, cadono poi in grotte nell’acqua turchese. Altro che Campi Flegrei e Dolomiti, a Sarakiniko sembra di essere sulla luna.
Scrivo oggi  di queste meraviglie accadute fino a un paio di giorni fa e sembrano trascorsi mesi. 
Da allora a adesso, tre giorni di incessanti temporali, venti da sud con groppi e raffiche, lampi e tuoni a farci compagnia, ci hanno fatto capire definitivamente che è ora di pensare alla rotta di ritorno verso casa prima del rigido inverno che nel tirreno spesso non perdona. Però la barca si è lavata per bene, fin dalla cima dell’albero e delle sartie in attesa della prossima innaffiata di mare. 
Abbiamo passato questi giorni ben ridossati da Sud nel grande golfo di Milos, dalla parte opposta del porto davanti alla spiaggia di Achivadolimini, bellissima anche questa, tra un temporale e l’altro  siamo anche riusciti a strappare un bel bagno. A rendere più leggeri questi giorni di inattività forzata la compagnia di Alberto e Rita in rada con noi con il loro bellissimo Gaia con i quali abbiamo diviso cene, racconti di mare e di Grecia. 
Capitan Alberto è da 35 anni in mare con Gaia, della Grecia ha visto praticamente tutto, ora che i figli sono grandi e non lavora più, per mare ci passa buoni 8 mesi e in barca almeno 10 l’anno. Ora, passata la burrasca da sud ci siamo spostati entrambi davanti al porto ad aspettare la preannunciata risposta da Nord (potevi pensare che il Meltemi non volesse l’ultima parola anche stavolta?). Constatiamo però con un certo sollievo che il forza 10 previsto stamattina è stato già ridimensionato a forza 8. Anche i Meltemi talvolta le sparano più grosse di quante ne facciano.