mercoledì 17 agosto 2011

Gocek, Marmaris e Karaburun, il trampolino per la Grecia.


A Fetiye prendiamo una decisione: questo punto nave sarà il più a Est del nostro viaggio. Decidiamo quindi di non proseguire verso Kas, e il Golfo di Kekova ma di risalire la costa fino a Karaburun e poi rientrare in Grecia. Un po’ ci dispiace non andare a Kastellorizo, l’ultima del Dodecaneso proprio di fronte a Kas, ma ci siamo già stati 20 anni fa quando sul lungomare i bar trasmettevano 24 ore al giorno il film di Salvatores “Mediterraneo” che aveva appena vinto l’oscar.  Per quanto nei nostri ricordi la piccola Kastellorizo sia stupenda e il golfo di Kekova sia descritto come la parte più bella della costa turca, ci rendiamo conto che la distanza e la risalita controvento non valgono il viaggio.
Lasciato il marina di Fetiye, navighiamo un po’ nel golfo  e facciamo qualche bagno nelle cale costellate da tombe licie per poi andare a passare la notte di fronte al vivace paesino di Gocek. Anche qui, pur non stando in porto, la preghiera del muezzin ci tiene compagnia.
Usciti dal grande golfo di Fetiye, ci regaliamo un bagno davanti a una spiaggia bella e selvaggia: è di nuovo mare, o quasi, l’acqua resta poco limpida ma siamo soli, i fondali sono ridotti e le temperature più basse.
Marmaris, rannicchiata al fondo di un altro grande golfo, è la gioia di chi va per mare: un profluvio di shipchandler e vari negozi di attrezzatura nautica che te li sogni persino a Genova o a La Spezia. Acquistiamo un’ancora che fungerà sia da ancora da scogli che da ancora di rispetto, una nuova lampadina a led per il pozzetto e vari articoli più o meno indispensabili in un fantastico negozio americano West Marine, costoso ma fornitissimo. 
Anche qui il marina è efficiente, cominciamo ad incontrare italiani, è da parecchio che non sentivamo la nostra lingua. Non ci riconoscono, noi battiamo bandiera francese e il nome della nostra barca è spagnolo. Giovanni che da qualche settimana attraversa una fase di orgoglio patriottico vorrebbe mettere sulla sartia di sinistra la bandiera italiana, non glielo permetto perché fa molto charterista e poi non ho alcuna voglia di dichiarare la mia nazionalità, non che mi piaccia apparire francese, ma quella la dobbiamo indossare per forza. E poi non vedo perché abbondare di informazioni. 
La barca comincia a dare i segni dell'avventura che ha vissuto in questi mesi e soprattutto della traversata da Creta a qui, c'è sale ovunque, fino in testa d'albero e, anche se sembra paradossale per una barca, il sale non fa tanto bene alle sue parti di acciaio. "Bisognerebbe salire in testa d'albero e tentare di pulire almeno un poco" dice Giovanni. L'impresa mi piacerebbe di più se potessi abbondare nell'uso dell'acqua che mi porto su con il tubo, ma alla nostra destra e alla nostra sinistra ci sono altre barche e non apprezzerebbero la doccia di sale e sporco che piove sulle loro teste. Cerco di fare un'operazione chirurgica con spugna e solo qualche filo d'acqua ma grazie anche a quel poco di vento la barca alla nostra sinistra quando ho finito ha delle belle chiazze. Almeno, complice la nostra bandiera, non potranno dire "i soliti italiani...". Propongo a Giovanni di offrire ai vicini le scuse e un lavaggio della loro coperta ma lui, fedele al suo credo "negare anche l'evidenza" mi dissuade dicendo che è una barca charter e a loro non importa. In effetti sono rimasti stoicamente in pozzetto senza apparentemente accorgersi di nulla...
Continuando la risalita della Turchia, scorriamo il promontorio a sud della grande penisola della Datca, dentro le cui braccia è adagiata l’isoletta di Simi, nostra prossima meta. Ci fermiamo per una notte in un bell’ancoraggio solitario in una cala senza nome a nord di Kumlu Burnu dove sperimentiamo con successo l’ancoraggio con la seconda ancora a poppa ben incastrata da Giovanni in uno scoglietto. Verso sera, mentre stiamo preparando la cena, ci raggiunge un pescatore con la moglie che si ancora accanto a noi, ci urla qualcosa che può essere indifferentemente un insulto o un affettuoso saluto, alla fine decidiamo per la versione positiva. Sorge la luna poco meno che piena e stiamo così, vicini ma non troppo in questo sperduto angolo di mondo, noi con la nostra matriciana e i nostri compagni di rada con una pita e meze (antipasti vari) che mangiano con le mani. La signora ha un vestito lungo e un foulard in testa. Peccato non poter comunicare, comunque condividiamo uno scenario stupendo e una notte illuminata. Poi all’alba il pescatore salpa per ritirare le sue reti.
Bozuk Buku è un fiordo profondo e molto frequentato subito a sud del capo di Karaburun, in alto le rovine dell’antica città di Loryma talmente ben conservate che visitandola ci chiediamo se non sia stata ricostruita. Qui siamo in tanti, molte barche di charter e caicchi ma la baia è grande e non ci si dà fastidio. Girano per le barche ragazze su piccoli motoscafi che offrono parei e teli da bagno da hammam. Sul catamarano vicino a noi un gruppo di signore americane inizia una trattativa da suk indemoniata, non riesco a capire come va a finire ma mi sembra che acquistino molto poco rispetto al tempo che hanno fatto perdere alle ragazze. Provo sempre un certo imbarazzo ad assistere alla trattativa fatta dagli occidentali su oggetti che hanno di base un costo irrisorio, si comportano esattamente come suggeriscono le guide turistiche, forse andrebbe tolto questo paragrafo dalle guide, a me sembra una gran cazzata dire che è costume trattare, che è una usanza e che la popolazione locale si aspetta questo tipo di manfrina. Il prezzo che viene proposto è di 3 lire turche a telo, vale a dire poco più di un euro. Trattare mi suona indecente. 
Si avvicina a noi una di queste, una bella ragazza cicciottella con un bel sorriso da persona buona, non insiste quando le dico che non ci servono parei, chiede con discrezione se gradiamo del pane fresco (village bread) domani mattina, le dico di sì e  concordiamo l’ora. La mattina dopo, appena esco in coperta, la trovo lì a 100 metri discretamente in attesa del nostro risveglio. Dove c’erano i parei, ora ci sono le grandi forme di pane caldo. Notando la bandiera mi saluta in francese e mi chiede come va, resta sorpresa della mancia e ringrazia sempre in un francese che a me sembra perfetto ma questo non vuol dire. Non tratto sul costo del pane e le lascio una mancia equivalente al costo, non mi sembra offesa, forse lei le guide turistiche non le legge…Bell’incontro, mi commuove. C’è una delicatezza e una serenità in questa poco più che ragazzina ben lontana dalla furbizia che ho letto negli occhi dei turchi visti fin qui.

Nessun commento:

Posta un commento